Nella prima parte di questo articolo proponevo un ragionamento sul “fascismo che viene”, a partire dal ripresentarsi dell’alleanza tra liberali e fascisti che procurò all’Europa il fascismo storico, e che oggi si ripresenta con caratteri inediti ma comunque simili a quelli della prima ondata nera conosciuta da questo continente.
Al cuore nero di questo fenomeno si situa la politica neoliberale che ha perseguito un processo ininterrotto di concentrazione della ricchezza in poche mani, con la conseguente feroce guerra contro le classi lavoratrici per riprendersi quanto strappato nel corso del trentennio di espansione economica dello scorso secolo.
Oggi il fenomeno di concentrazione della ricchezza si pone a un livello sconosciuto prima, considerando che il confronto tra un salario operaio e quello dirigenziale è schizzato da 1 a 20 fino al rapporto incommensurabile di oggi, dove i manager più poveri prendono 120 volte quanto un lavoratore/trice della stessa azienda, per non citare il caso limite di Musk che ha recentemente ottenuto una retribuzione annuale di 56 miliardi, più di quanto umanamente pensabile in termini matematici.
Lazzarato recentemente notava come dietro a queste cifre non ci sia nessuna razionalità economica ma una precisa suddivisione delle e degli umani in categorie incommensurabili tra loro. Si tratta semplicemente di un rapporto di potere; lo stesso sempre praticato nelle colonie da parte delle potenze europee e che divide l’umanità in razze diverse, dove una ha precise pretese di proprietà sull’altra.
È evidente che non parliamo più di un mondo diseguale ma di un mondo dove esistono (almeno) due umanità che non hanno tra di loro alcun rapporto, se non quello di dominio assoluto di una sull’altra. La libertà invocata dai Musk o dalla Silicon Valley è la libertà dell’umanità dominante di poter disporre dell’altra umanità come propria proprietà. Il credo di questo ceto di ultraricchi è proprio quello dell’incompatibilità tra le forme della democrazia e del diritto, che almeno teoricamente riconoscono una forma di eguaglianza giuridica tra le persone, e quelle del capitalismo avanzato.
Se personaggi come quelli citati mantengono per noi la distanza classica che si instaura tra le persone appartenenti alla “vecchia Europa” e quelli cresciuti in un nuovo mondo dove l’ordine di ceto non è mai esistito (e quindi ci suonano strani, “esagerati”, quasi folkloristici), bisognerebbe essere a conoscenza del fatto che i Macron, i Draghi e la compagnia varia che governa i nostri paesi, persegue esattamente lo stesso progetto. Tornare a prima del welfare, a prima del New Deal, a prima della crescita salariale della seconda metà del Novecento, prima delle rivoluzioni.
Un’idea di una piccola aristocrazia che guadagna in forma di rendita esattamente quanto decide di guadagnare e che regna indisturbata su una plebe che deve dividersi una miseria e che è in perenne lotta interna secondo un numero impressionante di gerarchie della povertà.
Gli stati occidentali – ancora oggi qualcuno parla a sproposito di un contrasto tra Stato e Mercato – sono i principali fornitori di rendite alle imprese, tramite un fisco pesantemente sbilanciato a favore dei ricchi e volto a penalizzare le classi lavoratrici e tramite diretti finanziamenti (caso da scuola quelli legati al famigerato PNRR) dei quali le stesse imprese non devono rispondere né fornire contabilità.
Si pensi a quando timidamente il “Decreto Dignità” introdusse dei limiti al lavoro a tempo determinato e all’abuso che ne viene fatto; subito si levarono cori animati da tutta la stampa e gli opinionisti in cui si sosteneva che era in corso un attacco alla libertà di impresa. Concezione chiarissima dei rapporti di forza tra le persone all’interno di una società, concezione chiarissima del ruolo statale come macchina amministrativa incaricata di sequestrare la ricchezza sociale a favore della ristretta élite di capitalisti-aristocratici.
Volendo essere poetici, un ritorno a una formazione sociale con tratti tipicamente feudali, da società di censo. Essendo molto più pragmatici, la confutazione della narrazione liberale che vede capitalismo e democrazia come fenomeni convergenti. Qualcuno lo ha detto in una sola frase in modo particolarmente efficace: si tratta di Peter Thiel, il fondatore di Paypal. In occasione di uno degli eventi globali in cui i miliardari dispensano alle masse il loro verbo, ha dichiarato: “Non credo che libertà e democrazia siano compatibili”. Dove il concetto di libertà è ovviamente quello della possibilità per la ristretta cerchia degli uomini più ricchi di non avere limiti nella propria azione.
Ma se questi personaggi sono l’espressione più ardita di questo progetto (si segnala un’altra frase di Thiel “Gli anni Venti in America sono stati l’ultimo momento in cui si poteva essere ottimisti. La successiva creazione del welfare e l’estensione del voto alle donne, hanno reso l’espressione democrazia capitalista un ossimoro”), il loro fine ultimo non è differente da quello di tutte le élite economiche e politiche d’occidente; la spesa pubblica, il welfare non sono mai spariti dai paesi occidentali: semplicemente hanno cambiato destinatario. Non sono più gli ospedali, l’istruzione, l’assistenza sociale, le assicurazioni sociali o le pensioni l’obiettivo di questi finanziamenti, ma i redditi più alti e le imprese. In un paese come la Francia, 230 miliardi di euro all’anno vengono trasferiti dalle tasche dei ceti medio-bassi a quelli delle imprese; in Italia si tratta di una cifra leggermente più bassa, ma il senso del flusso finanziario è lo stesso.
La chiarezza è strettamente necessaria al nostro agire politico: il compromesso tra forme democratiche e capitalismo è il risultato della lotta di classe. Il confronto e lo scontro politico in ultima analisi è sempre un conflitto tra uguaglianza e liberalismo. Il fascismo non è che una delle facce del liberalismo, quella più feroce che abbandona ogni parvenza di società umana e vi sostituisce una società per ceti o per caste.
L’uguaglianza invece è sempre legata alla lotta di classe, il liberalismo in tutte le sue forme alla differenza sociale basata sulla proprietà.
Contrariamente a quanto pensato da generazioni di marxisti, i rapporti sociali basati sulla proprietà e sulla ricchezza sono totalmente indifferenti alla modernità ed al progresso. Sullo stesso lato della barricata troviamo vecchi rottami del fascismo novecentesco come Meloni e Le Pen e nuovi oligarchi delle punte avanzate della ricerca tecnologica e della finanza come Musk.
Qualsiasi sia il centro dell’azione politica dei movimenti, tutti si trovano a scontrarsi con il privilegio del potere; e il privilegio del potere è la proprietà: del lavoro altrui, degli altri esseri umani, delle donne, della natura. Da questo punto di vista il percorso delle classi privilegiate ha subito solo qualche rallentamento nel corso del Novecento dopo la rivoluzione russa; al termine di quel ciclo ha ripreso immediatamente e con maggior vigore il proprio progetto di assoggettamento di ogni cosa o persona esistente.
Ma lo scontro di classe presuppone necessariamente che una classe contrasti quella dominante. Questo sì è dato in forma settoriale e limitata (anche se a volte con mobilitazioni impressionanti) da quasi un cinquantennio in tutto l’occidente.
Mobilitazioni che non hanno fermato il progetto liberale di imposizione della dittatura della proprietà privata.
Dentro questo processo, simile a quello innescato dalla fine del capitalismo concorrenziale circa un secolo e mezzo fa, sono spuntati i demoni della guerra tra potenze, della guerra civile all’interno dei singoli paesi, ma manca completamente la lotta di classe come espressione pubblica e insorgente dell’attrito degli interessi.
La lotta di classe rimanda al concetto di classe che, come tale (come espressione sociologica) semplicemente non esiste. Chi rimanda a un concetto di classe come forma di identità o come forma sociologica di convergenza di interessi ben determinati, dimostra di non aver guardato fino in fondo alle dinamiche sociali degli ultimi due secoli.
La classe è un fenomeno politico, è un evento; la classe operaia anche al tempo dell’operaio massa era molteplicità, non identità; una costruzione politica, non il risultato di un fenomeno sociologico.
La classe senza una politica di liberazione, in primo luogo dalla proprietà, semplicemente non esiste; è una formazione sociale che esiste solo in relazione con le altre classi.
In altri termini la classe esiste solo come conseguenza della lotta di classe.
La classe è quindi, allo stesso tempo, l’intersezione di una molteplicità e la capacità di praticare una dualità nei confronti del nemico comune, praticando sempre il rifiuto di lasciarsi chiudere in uno strumento identitario ma allo stesso tempo imponendo allo scontro sociale una necessaria polarizzazione.
Dentro questa dialettica difficile ma necessaria si pone l’agire di chi intende sovvertire il mondo delle classi proprietarie. Definendo i contorni della classe sulla base dello scontro in atto, ripartendo dall’azione come termine di partenza della stessa definizione della classe, con lo stretto convincimento che l’azione, come ricordava Thompson in Il farsi della classe operaia in Inghilterra, “non risiede in un’identità, ma nelle donne e negli uomini che la praticano”.
Stefano Capello